Salta al contenuto Passa al footer

La malattia della mamma mette in crisi il rapporto madre-figlio?

Come nasce una mamma? Ce ne parla la dr.ssa Claudia Castellani, psicologa psicoterapeuta psicanalista e mamma con osteoporosi gravidica, per scoprire insieme come si costruisce nella donna l’identità materna. E soprattutto, per capire come fare a riparare questo processo, quando qualcosa, traumaticamente, lo interrompe.

Lo sappiamo: quando nasce un bimbo, nasce anche una madre. Ma con nascita intendiamo ancora innanzitutto la nascita del bambino, ossia la venuta al mondo, dal corpo della madre, di un nuovo individuo che si sviluppa e accresce in termini di evoluzione fisica e mentale. Questa nascita inizia psichicamente dalla mente della madre. Grazie ad essa e grazie alla relazione con lei, l’individuo evolve e progredisce nel tempo (se tutto va sufficientemente bene, soprattutto in termini relazionali). A questo argomento si sono dedicati a fondo psicologi, psicoanalisti e pedagogisti da circa metà del XIX secolo, mentre solo in maniera minore si è indagato su come nasce e come cambia l’identità della donna nel momento in cui essa diventa madre.

#tralemiebraccia

Donna non si nasce, lo si diventa” diceva Simone De Beauvoir e sicuramente questa massima appare molto attuale e penso possa essere traslata al concetto di maternità: mamme non si nasce, lo si diventa. Questa affermazione, all’apparenza banale, intende negare quindi gli stereotipi culturali legati ad esempio al concetto di “istinto materno”, di cui molte donne sentono di essere prive e perciò si colpevolizzano.

Istinto materno? Uno stereotipo. Mamme si diventa, non lo si è per istinto.

Penso infatti che questo “famigerato” istinto genitoriale che tutte noi donne dovremmo avere, sia in realtà un’invenzione (del patriarcato?) o comunque un fenomeno che non esiste nella natura umana perché appunto diventare madri è un processo legato anche ad una costruzione identitaria che, se le cose vanno in una certa direzione, si può creare e consolidare nel tempo e far sentire le donne madri “sufficientemente adeguate”. Ma le direzioni possibili non sono una soltanto.

Attraversare la crisi per cominciare a diventare madri

La donna può (ed uso il verbo “potere” in antitesi al “dovere”) durante i mesi della gravidanza iniziare il percorso di costruzione della propria identità di madre e questa parte del proprio Sé può arrivare ad integrarsi con le altre numerosi parti che lo compongono.

Questo è un cammino che è sicuramente diverso da donna a donna e che inizia con una crisi, intesa come una rottura identitaria rispetto al precedente stato omeostatico di equilibrio in cui la persona si trovava prima della nascita del figlio.

La nascita del figlio irrompe quindi nella vita della donna e mette in crisi la propria identità femminile che da lì in poi si rigenererà ripartendo da ciò che rimane del vecchio senso di Sè.

Non esiste un bimbo senza una madre, non esiste una madre senza un bambino

Donald D. Winnicott, pediatra e psicoanalista inglese, sosteneva che “non esiste un bambino senza la madre”. Questa affermazione, apparentemente paradossale, sta a significare che per comprendere il comportamento di un bebè, il filtro che l’osservatore deve utilizzare è quello dato dalle “rappresentazioni”, consce e inconsce, che hanno di lui. Inoltre, questo paradosso focalizza l’attenzione sul rapporto intrinsecamente indissolubile tra i due elementi del legame madre-figlio.

È però vero anche il contrario, cioè che non esiste una madre senza il bambino; infatti, l’identità e la rappresentazione di se stessa che la madre ha di sé è legata non solo alla presenza del figlio, ma anche alle capacità di cura materna che la madre sente di avere e di poter mettere in atto nel rapporto con l’infante.

L’osteoporosi gravidica interrompe il rapporto tra madre e figlio

La domanda che allora io mi pongo, sia come psicoterapeuta, sia come madre che ha sofferto di osteoporosi post gravidica durante e dopo la nascita del figlio primogenito, è la seguente: in che modo e in che misura il dolore, sia fisico che psichico, e le conseguenti limitazioni nelle capacità di prendersi cura del figlio durante il periodo del post partum, ha influenzato la costruzione dell’identità di “buona madre”?

Sicuramente non c’è una risposta giusta che si adatti a tutte le madri che hanno sofferto o soffriranno in futuro di questa patologia, ancora sconosciuta ai più, ma in questo scritto vorrei parlare anche del mio vissuto soggettivo di quel periodo per me terribile, in cui sono stata bloccata a letto per più di 4 mesi a causa di un edema sul collo del femore, che mi causava dolori lancinanti e quindi la conseguente impossibilità (e divieto medico) di stare in piedi, con relativa incapacità di tenere in braccio il mio neonato.

Le storie delle donne come me sono tristemente simili: una gravidanza più o meno nella norma, la nascita del figlio e poi il famoso “crac”, un momento terribile in cui qualcosa dentro il nostro corpo (e contemporaneamente dentro la nostra mente) si rompe.

Mio figlio mi ama ancora? Sono ancora una madre?

Un osso che si frattura immobilizza e blocca, o nel migliore dei casi rallenta, il processo di costruzione di quel pezzo del nostro Sé che ci fa sentire una buona madre. Inoltre, non poter prendere il neonato in braccio e il non allattare al seno (altro mio divieto medico) mette in pericolo il processo di attaccamento del bambino alla madre e questo sicuramente può peggiorare le cose.

Molte volte ho sentito altre mamme con osteoporosi post gravidica lamentarsi del fatto che il loro bambino sembrasse non preferirle rispetto ad altre figure di accudimento che avevano dovuto sopperire alla cura stessa del neonato. Ritengo che il rapporto madre-figlio possa certamente essere “riparato” e risaldato poi in seguito ma che tutto questo abbia un costo in termini non solo di dolore psichico da parte di entrambi (madre e figlio) ma che esso determini una rottura proprio all’interno del Sé della madre e che questa frattura abbia poi bisogno di tempo e di cure per potersi risaldare.

La malattia arriva come una crisi, una rottura che avviene in un momento in cui la vita della donna sta già subendo un’altra crisi identitaria necessaria alla costruzione della propria immagine materna. La malattia provoca un rallentamento di questa creazione identitaria e la persona può sentire la necessità di riorganizzarsi psichicamente partendo da ciò che pensava di poter diventare.

E qui entrano in gioco i mariti, i compagni, le proprie madri e tutto l’ambiente esterno che nel migliore dei casi supporta la madre, sopperisce alle sue mancanze e ne facilita il rapporto con il neonato. La neomamma ha bisogno di sentirsi una brava mamma, ha bisogno di sentire che sta creando un legame con il suo piccolo anche se non può allattare al seno, anche se non può reggerne fisicamente il suo peso.

Tenere in braccio il proprio figlio

La capacità di tenere in braccio il bambino è una funzione materna primaria, necessaria allo sviluppo psichico del neonato. In accordo con la psicologia di Winnicot lo si può chiamare holding e il suo significato va da un senso strettamente fisico, come tenere in braccio l’infante, all’insieme delle cure ambientali volte a rispondere ai bisogni del bambino.

Winnicott parte dall’idea che c’è una fase in cui il neonato, dipende completamente dalle cure materne. La coppia madre-figlio costituisce un sistema unico, tanto che le cure materne e l’infante non possono essere considerati disgiunti. Questa condizione si crea nelle prime fasi del rapporto madre-bambino, quando non esiste un Sé separato dalle cure materne e l’infante si trova in una condizione di dipendenza assoluta .

Il rapporto madre-figlio può essere “riparato” e risaldato poi in seguito, ma tutto questo ha un costo: in termini non solo di dolore psichico da parte di entrambi (madre e figlio), ma anche di una rottura proprio all’interno del Sé della madre.

Le cure materne si basano sulla sensibilità e sulla capacità empatica della madre che, grazie a uno stato mentale definito da Winnicott “preoccupazione materna primaria”, è in grado di identificarsi con l’infante e di rispondere ai suoi bisogni.

Winnicott parte dall’idea che le cure genitoriali soddisfacenti permettono al potenziale ereditario del bambino di accrescersi e svilupparsi nel migliore dei modi.

Le buone esperienze relazionali danno al bambino la possibilità di cominciare a esistere e di strutturare un Io personale. Le cure ambientali hanno sia la funzione di rispondere ai bisogni fisiologici del bambino (nei primi mesi di vita fisiologia e psicologia non sono ancora differenziate), sia quella di proteggere il bambino dalle pressioni del mondo esterno.

Quando le cose vanno abbastanza bene si costruisce nell’infante la “continuità dell’essere” che è il fondamento dell’Io che passerà da un iniziale stato non integrato ad un sentimento di unità nello spazio e nel tempo (integrazione).

Un ambiente emotivamente solido e sicuro protegge il bambino dalle interferenze interne ed esterne (impingments) che, secondo Winnicott, possono, se eccessive o troppo precoci, disturbare il processo di sviluppo.

E quando la relazione madre-figlio si (inter)rompe?

Sempre secondo Winnicott, la capacità della madre di tenere in braccio il bambino (Holding), la sua capacità di manipolarlo e maneggiarlo (Handling, la fase successiva) consentono l’elaborazione immaginativa delle esperienze sensoriali e motorie che andranno a costituire il tessuto del vero Sé del figlio e il raggiungimento della coesione psiche-soma.

La qualità dell’ambiente e delle prime cure materne determinano dunque lo sviluppo e la qualità di un Sé autentico che, se ben sostenuto, sarà capace di essere creativo e di sentirsi reale.

Il concetto di Holding è stato di primaria importanza per definire quanto sia determinante la funzione della madre-ambiente per lo sviluppo dei processi primari nell’infante.

Alla luce di queste fondamentali basi teoriche, che riguardano lo sviluppo emotivo del bambino, mi pare rilevante sottolineare non solo l’importanza del concetto di Holding nella relazione primaria ma anche che nel caso di rottura di questa relazione, a causa dell’insorgere dell’osteoporosi post gravidica, essa debba essere considerata come un vero e proprio impingment, un urto alla relazione stessa.

Per crescere un bambino, ci vuole un villaggio

In questi casi l’ambiente esterno (costituito dalle altre figure caregivers) non dovrà sostituirsi alla madre stessa, ma al contrario facilitarne il rapporto con il figlio per darle la possibilità di mantenere la propria capacità di Holding.

In conclusione, in questo scritto ho cercato di indagare su come si costituisce nella donna l’identità materna e come essa venga influenzata dall’insorgere dell’osteoporosi post gravidica che può bloccare e interrompere questo processo.

Per poter risaldare la frattura identitaria, sarà importante che l’ambiente esterno riesca a far mantenere alla donna le proprie capacità di Holding nei confronti del proprio figlio.

Lascia un commento