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“Devi smettere di abbracciare tuo figlio”. La salute mentale delle mamme con osteoporosi gravidica, qualcosa di cui prendersi cura

Il prossimo 10 ottobre si celebrerà la Giornata mondiale della salute mentale – World Health Mental Day.

Si tratta di un importante appuntamento per richiamare l’attenzione globale su un tema spesso svilito e ancora oggetto di stigma sociale e  pregiudizio. E per sensibilizzare le istituzioni e la società in generale sull’importanza del benessere psicologico e sulla necessità di un incremento delle azioni a sostegno di attività e programmi sulla salute mentale.

Anche a MAMog il tema della salute mentale è molto caro. L’impatto psicologico dell’osteoporosi gravidica sulle donne che si fratturano diventando madri, e che per guarire hanno dovuto rinunciare a prendersi cura del proprio bambino, non è ancora stato esplorato e ancora oggi, se arrivare a una diagnosi tempestiva è difficile, l’opportunità di percorsi per la salute mentale ed emotiva delle pazienti non è neppure all’orizzonte.

Ne parliamo oggi con la dr.ssa Alessia Besana, psicoteraputa e mamma con osteoporosi gravidica, e con la dr.ssa Chiara Maiorani che, con l’Università Cattolica di Milano, guiderà il progetto M.A.t.E.R, il primo progetto al mondo che indaga l’animo delle pazienti con osteoporosi gravidica, per stimare l’efficacia di un supporto psicologico per loro e le loro famiglie.

Osteoporosi gravidica, una patologia mentale?

Molte condizioni di salute mentale non sono adeguatamente considerate, con conseguente assegnazione di una priorità inadeguata a questi disturbi e peggioramento della sofferenza di chi ne è affetto.

L’osteoporosi gravidica è una patologia gravemente invalidante che colpisce la donna in un momento della vita già molto delicato, la transizione alla maternità. Frequentemente è la stessa sofferenza fisica della donna ad essere sottovalutata: i dolori riferiti vengono sminuiti e “declassati” ad un problema psicologico: l’equivoco comporta sistematici ritardi nella diagnosi di osteoporosi gravidica. Ma una volta raggiunta la diagnosi – e quindi una volta esclusa la depressione post partum, che paradossalmente rappresenta in molti casi il primo sospetto diagnostico – il malessere psicologico che la malattia porta con sé viene completamente ignorato. Ma quali sono i risvolti psicologici dell’osteoporosi gravidica su una  neo-mamma?

“Fragilità ossea vuol dire farsi male facendo cose normali come starnutire, o tirare su la tapparella.
Porta con sé la necessità di essere cauti, attenti a non compiere movimenti sbagliati che potrebbero aggravare ulteriormente la situazione, bisogna tirare i remi in barca e proteggersi.
Peccato che a volte ciò avvenga in una fase di vita in cui la donna è tutta concentrata sul nuovo ruolo di mamma, in cui è il neonato ad essere in primo piano, in cui ci si sente che non è concesso riposarsi serenamente in quanto occorre accudire una nuova creatura”. Comincia così la Dr.ssa Besana il suo viaggio nell’osteoporosi gravidica. Seguiamola…

“Deve smettere di allattare ed eviti di prendere in braccio suo figlio”.

Quante neomamme si sarebbero immaginate di sentirsi dire queste parole? Tra tutte le paure e gli scenari catastrofici che popolano la mente di una futura mamma, la prospettiva di sviluppare una patologia rara, quale l’osteoporosi gravidica, non compare tra la lista di cose che potrebbe andare male.

Di solito accade che la neomamma inizi ad avere un forte mal di schiena, “è normale” le dicono tutti e lei se ne convince. Del resto, al di là della gravidanza e del parto non è successo nulla: nessuna caduta, nessun colpo, nessun movimento strano. Ad un certo punto però il dolore diventa ingestibile, a volte costringe a letto, si iniziano a vedere specialisti, non sempre desiderosi di prendere sul serio la mamma – e non dico “signora” volutamente, perché diventare madre porta con sé un ruolo, non sempre piacevole da sostenere, e che spesso si porta dietro il pregiudizio della depressione post-partum.

Insomma, per arrivare ad una diagnosi corretta, occorre sapersi fidare di sé e del proprio corpo, sapersi dire che “no, non è normale un male così”.

Quando arriva la diagnosi, arrivano anche le indicazioni per poter guarire, o comunque per non peggiorare, in primis:

  • Smettere di allattare
  • Non sollevare pesi, ovvero non prendere in braccio il neonato.

Da qui, oltre che il dolore fisico, si insinua in modo prepotente la sofferenza psicologica. Perché questi suggerimenti, che salvano la donna, spezzano la madre a un livello più profondo.

Solamente il fatto di provare dolore fisico e di ricevere una diagnosi di patologia rara basterebbe per necessitare di un periodo di elaborazione di quanto accaduto, per integrare nella propria storia di vita tale evento. In aggiunta, se si pensa a quanto sia delicato il periodo in cui una donna diventa mamma, soprattutto per la prima volta, si intuiscono le ripercussioni di carattere psicologico che l’essere diagnosticata come malata possa portare con sé.

Immaginiamo. La neomamma ha un dolore alla schiena che le impedisce di fare alcuni movimenti tra cui spesso anche dormire sdraiata: si dorme semi sedute. O al contrario blocca in una posizione immobile distesa. Questa mamma deve evitare di compiere alcuni gesti, tra cui chinarsi, e non sollevare pesi. Per scongiurare il rischio di altre fratture vertebrali, deve portare un busto per mesi e per il primo periodo stare molto a riposo, sdraiata. Tale condizione implica il poter contribuire molto poco alla gestione domestica e del neonato, non potendo sollevarlo. A ciò, si aggiunge la paura di poter avere altri cedimenti vertebrali.

Vi sono molti aspetti in gioco:

  • La neomamma deve innanzitutto integrare la diagnosi nella sua storia di vita e scoprire di essere una mamma “malata”, fantasia che non era rientrata negli scenari preparto che si era andata col tempo a costruire e a popolare.
  • Quando si diventa madre, si è impegnate in un compito nuovo, avvertito come di vitale importanza, e ogni cosa che mina la fiducia personale è vissuto come destabilizzante e fatica ad essere sopportato. Una diagnosi di patologia – guarda caso di “fragilità” ossea- inserita in questo periodo specifico di vita della donna può intaccare profondamente la fiducia in se stesse.
  • Le paure per la salute e la sicurezza del bambino, con l’amore provato, rappresentano una spinta molto potente che impedisce di tralasciare e ignorare i suoi bisogni. C’è il neonato in primo piano, in un momento in cui invece la madre avrebbe bisogno di riposare, essere cauta e curarsi. Oltre al neonato, c’è anche la mamma che ha bisogno in parte di essere accudita.
  • La mamma non può prendersi direttamente cura lei di alcune attività del neonato, deve quindi delegare. Se da una parte questo aspetto può anche essere rassicurante nel primo periodo di novità, può diventare frustrante a lungo andare e impedire alla neomamma di cimentarsi lei stessa con l’accudimento materiale del figlio, scoprendosi così capace.
  • La necessità di farsi aiutare, porta con sé la dipendenza dagli altri. Si crea la possibilità che ci siano interferenze esterne, proprio in un momento in cui si sta delineando un nuovo nucleo famigliare e i neo genitori devono ancora capire cos’è successo, costruire tra di loro un nuovo equilibrio, rinegoziare ruoli e spazi. Persone esterne possono essere una risorsa, come aiuto pratico, ma anche fonte di stress, disconferme e invalidazioni del metodo di accudimento che i genitori stanno imparano ad attuare.

Così, alle tipiche paure di una neomamma se ne sommano altre, molte. Che mamma sono se non prendo in braccio mio figlio? Se non lo allatto? Cosa mi resta? Influirà tutto questo sul suo sviluppo? Che peso avrà su di lui il fatto di aver avuto una mamma sofferente nei primi mesi di vita? Vorrà stare ancora in braccio a me? Preferirà il papà a me? Può dimenticare che sono io sua madre?

Mentre quindi la donna dovrebbe essere concentrata sull’accudire il suo neonato, si impone l’urgenza di curare lei stessa e tutelarsi. Ecco che le indicazioni per avviare il processo di guarigione chiedono alla madre di rinunciare ad agire come madre. Alla sofferenza fisica si somma quindi una sofferenza psicologica in cui la neo-mamma si domanda: “Se non posso allattare né prendere in braccio mio figlio, che mamma posso essere?”.

La madre deve quindi cimentarsi con uno scenario che non si era nemmeno lontanamente immaginata e deve costruirsi un nuovo e creativo modo di essere mamma, tenendo conto di tali limitazioni. E concentrandosi su quanto può ancora fare.

Ma alle donne che si porteranno sempre dietro il dolore provato in quei mesi che sembrano non finire mai, però, occorre dire che sono due i compiti fondamentali della maternità: assicurare la sopravvivenza del bambino e amarlo.

Amarlo, dunque: su questo, non ci sono dubbi che potranno farlo egregiamente.

Dr.ssa Alessia Besana

Il progetto M.A.t.E.R. e la giornata mondiale sulla salute mentale

La ricerca sulla salute mentale delle mamme con osteoporosi gravidica non è stata finora approfondita e al momento i dati sulla prevalenza e incidenza di sintomi ansiosi, depressivi e post traumatici sulle pazienti affette sono, a dir poco, scarsi. Eppure, la sofferenza interiore di queste donne è un problema gigantesco, che può continuare a generare sofferenza per sempre, in loro e nei loro legami familiari, se non viene elaborata.

Ma qualcosa sta per cambiare. Prenderà il via questo mese il progetto M.A.t.E.R. (Maternal Adjustement through Empowerment Reorentation), voluto dalle associazioni Insieme Onlus e MAMog sotto la supervisione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, che in questa prima fase coinvolgerà 30 donne con osteoporosi gravidica. Lo scopo dell’iniziativa è quello di approfondire il tema della sofferenza mentale legata alla malattia e di testare l’efficacia di un supporto psicoterapeutico per le donne affette.

“Sono onorata di poter realizzare un progetto di supporto psicoterapico per alleviare la sofferenza causata dall’osteoporosi gravidica” afferma la Dr.ssa Chiara Maiorani, psicoterapeuta, che guiderà il progetto M.A.t.E.R. Attraverso il progetto ci si auspica di esplorare il mondo interiore delle mamme che hanno dovuto confrontarsi con una malattia così invalidante in un momento delicato come la nascita di un figlio, evidenziando che oltre alla sofferenza del corpo c’è un dolore interiore che merita di essere curato.

L’intervento, basato sulle più recenti scoperte neuroscientifiche, permetterà alle mamme di esplorare le parti più profonde di sé, di scoprire nuove risorse interiori, di lasciare andare il dolore legato ai ricordi più difficili. Ringrazio l’associazione MAMog per la fiducia” conclude la terapeuta.

È motivo di profonda gioia, questo progetto. La salute mentale delle madri deve sempre essere sostenuta. Nel caso di un trauma profondo come quello causato dall’osteoporosi gravidica, è ancora più urgente farlo. “Un dolore che merita di essere curato”: con questo studio si potrà forse cominciare a parlare di riabilitazione anche psicologica per le pazienti con osteoporosi gravidica.

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